A proposito di Brexit: contenuto e implicazioni dello ‘UK deal’

Davide Sardo si occupa dell’accordo raggiunto al Consiglio europeo di febbraio sulla posizione del Regno Unito nell’Unione europea. Dopo aver ricordato le richieste avanzate da Cameron, Sardo richiama i tratti salienti dell’accordo e valuta se e in che misura esso rappresenti un successo per Cameron. Inoltre, egli delinea la visione complessiva dell’Unione che traspare dalle richieste inglesi e si chiede se sia in contrasto con alcune generali tendenze di riforma dell’Unione in atto dallo scoppio della crisi.

Nel corso degli ultimi mesi, la questione della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea si è imposta come uno dei grandi temi politici al livello continentale. Al termine del Consiglio Europeo del 18-19 febbraio scorso, i Capi di Stato e di Governo dei 28 Stati Membri hanno concluso un complesso accordo che accoglie alcune richieste di riforma del quadro complessivo dell’Unione avanzate dal Primo ministro inglese David Cameron, e rivede in parte la posizione del Regno Unito all’interno del progetto comune di integrazione. L’ultima parola circa la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea spetta ora ai cittadini britannici, che saranno chiamati al voto in un apposito referendum indetto per il prossimo 23 giugno. Il tema, tuttavia, travalica la semplice questione dei rapporti tra l’Unione e uno dei suoi membri più grandi e influenti, e merita invece di essere apprezzato anche nel suo rapporto con il profondo processo di rinnovamento che ha investito alcuni caratteri fondamentali dell’Unione stessa a partire dallo scoppio della crisi.

Il contesto, innanzitutto. Nel gennaio del 2013, in un discorso tenuto a Bloomberg, David Cameron aveva promesso che, nel caso in cui fosse stato confermato Primo ministro in seguito alle elezioni politiche della primavera del 2015, avrebbe indetto entro la fine del 2017 un referendum per consentire ai cittadini britannici di esprimersi circa la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Il 10 novembre scorso, in seguito all’esito vittorioso delle elezioni di aprile, in un altrettanto importante discorso alla Chatham House, Cameron ha reso noto il contenuto della lettera che ha inviato il giorno stesso al Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, nella quale sono indicate le condizioni considerate necessarie dal Partito conservatore per impegnarsi in una campagna referendaria a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione europea.

In seguito al discorso alla Chatham House, il dossier UK è stato assegnato al Consiglio europeo di febbraio, e le richieste avanzate da David Cameron sono diventate oggetto di trattativa tra le diplomazie nazionali, i Capi di Governo degli Stati Membri (tanto al livello bilaterale che al livello multilaterale), e i vertici delle istituzioni europee. Il 2 febbraio scorso, il Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha reso pubblica la bozza di accordo intorno alla quale si sarebbero svolte le ultime trattative, ricalcando lo schema proposto da David Cameron, e aprendo a molte delle sue richieste. L’accordo è stato finalizzato durante il Consiglio europeo del 18-19 febbraio, e formalizzato nelle sue conclusioni. Nei giorni successivi, Cameron ha annunciato che, alla luce dell’accordo raggiunto, avrebbe supportato la causa della permanenza del Regno Unito nell’Unione europea nella campagna per il referendum che rimetterà la questione ai cittadini britannici, e che sarà indetto per il 23 giugno.

Nella sua lettera, Cameron aveva indicato quattro direttrici fondamentali di riforma, legate tra l’altro da una medesima visione complessiva dell’integrazione europea. Quest’ultima devia significativamente dal modello federalista che (seppure declinato in varie forme) appariva culturalmente dominante a Bruxelles prima dello scoppio della crisi. Più precisamente, la prima delle direttrici indicata da Cameron riguardava il rapporto tra i Paesi dell’Eurozona e gli altri Stati membri dell’Unione: il Governo inglese non intende ostacolare la progressiva integrazione delle politiche economiche dei Paesi dell’Eurozona, purché tali progressi non pregiudichino gli interessi degli Stati membri che non adottano l’euro. La seconda, meno controversa, direttrice riguardava alcune misure volte a migliorare la competitività dell’Unione, e ad alleggerire la complessiva regolamentazione europea. La terza direttrice riguardava il riparto di competenze tra l’Unione e gli Stati membri, e il ruolo dei Parlamenti nazionali: tra le richieste del Governo inglese in questo ambito si trovavano l’esclusione del Regno Unito dalla clausola del Trattato che prevede tra gli obiettivi degli Stati membri quello di impegnarsi per costruire “un’Unione sempre più stretta”, e il cosiddetto “freno d’emergenza” per i Parlamenti nazionali al fine bloccare la legislazione europea indesiderata. La quarta, ed ultima, direttrice, riguardava la libertà di movimento dei cittadini dell’Unione: l’obiettivo principale di Cameron era quello di portare a casa la possibilità di limitare le prestazioni assistenziali nei confronti dei cittadini dell’Unione europea residenti nel Regno Unito.

Al di là degli specifici punti sollevati, Cameron non ha nascosto la propria visione circa la struttura e il ruolo dell’UE per i decenni a venire, e anzi ha affermato esplicitamente nella lettera a Tusk che “le nostre preoccupazioni in realtà possono essere ridotte ad una parola: flessibilità”. L’Unione, ha affermato Cameron nel discorso alla Chatham House, “ha bisogno soprattutto di operare con la flessibilità di una rete, e non con la rigidità di un blocco”. È in questa Unione fondata sul mercato unico, e regredita al livello politico allo stato di consesso internazionale, che il Regno Unito può trovarsi a suo agio, pur accettando (a determinate condizioni) un più alto grado di integrazione tra i Paesi dell’Eurozona.

A questo proposito è interessante rilevare come, al netto della indiscutibile specificità degli interessi e della stessa narrativa politica del Regno Unito, l’idea di Cameron non si presenta come radicalmente incompatibile con la direzione che l’Unione europea ha preso a partire dallo scoppio della crisi. Il discorso di Bruges nel quale Angela Merkel ha presentato il cosiddetto “nuovo metodo dell’Unione” prefigurava già una “desolidificazione” del tessuto istituzionale e normativo dell’Unione europea, e in particolare il superamento del “metodo comunitario” in favore di una struttura, appunto, più simile a quella di una rete, imperniata non sulle istituzioni comunitarie di Bruxelles, ma piuttosto sugli esecutivi nazionali. Questo sforzo ha, tuttavia, condotto alla riduzione della trasparenza del processo decisionale, all’accentuato peso dei Paesi economicamente più forti in tale processo, e ad un pericoloso scivolamento verso una produzione normativa ibrida, a metà strada tra soft e hard law.

Dal punto di vista formale, l’accordo raggiunto consiste in sei distinti atti giuridici, il più importante dei quali è in una dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell’Unione europea (un atto di diritto internazionale, quindi giuridicamente vincolante per i Paesi firmatari, ma esterno al quadro del diritto dell’Unione europea). Dal punto di vista sostanziale, la dichiarazione si articola intorno alle stesse quattro direttrici delineate da Cameron nella lettera dello scorso novembre. In particolare, con riguardo al rapporto tra i paesi dell’Eurozona e gli altri membri dell’Unione, l’accordo prevede alcune garanzie procedurali a favore di questi ultimi, al fine di evitare che il progressivo approfondimento dell’integrazione tra i paesi dell’area euro porti pregiudizio agli interessi degli altri membri del mercato comune. Inoltre, Cameron ottiene il riconoscimento della possibilità per un certo numero di parlamenti nazionali (ma non per ciascun singolo Parlamento) di mostrare un “cartellino rosso” al legislatore europeo, costringendolo ad abbandonare una determinate proposta di legge. Il riferimento nel Trattato a “un’Unione sempre più stretta” viene mantenuto, ma con la promessa di inserire un’apposita esenzione per il Regno Unito. Infine, Cameron ottiene alcune significative vittorie nel quarto, e più delicato terreno: quello della libertà di circolazione dei cittadini comunitari. In particolare, l’accordo prevede l’adozione di un’apposita misura legislativa che permetterà ad ogni Stato membro, in presenza di determinate condizioni, di “tirare un freno di emergenza” per quanto riguarda l’assistenza sociale concessa ai cittadini comunitari, limitandola durante i primi quattro anni di lavoro nel paese ospite.

Anche dal punto di vista più generale della costruzione di un’Europa più flessibile superando l’orizzonte federalista e declassando il “metodo comunitario”, Cameron ha ottenuto alcune vittorie ma ha dovuto accettare anche qualche battuta di arresto. Da una parte, infatti, la forma stessa dell’accordo dimostra la porosità del diritto dell’Unione rispetto al diritto internazionale mentre il moltiplicarsi di eccezioni, cartellini e freni d’emergenza certamente non favorisce la coerenza e l’omogeneità del percorso di integrazione. D’altra parte, la dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo riconosce la superiorità dei Trattati, e, secondo l’eurodeputato italiano Roberto Gualtieri (che ha partecipato alle trattative in qualità di sherpa del Parlamento europeo), l’accordo getta le basi per il recupero della centralità delle istituzioni europee, nel quadro di un’Europa a due velocità.

È, probabilmente, ancora presto per prevedere l’impatto generale dell’accordo raggiunto, né bisogna dimenticare che su tale accordo pende la pesante spada di Damocle del referendum britannico. Inoltre è certamente vero che le richieste di Cameron non erano tali da incidere in profondità sulla struttura dell’Unione, e che l’accordo contiene alcune importanti salvaguardie. In realtà, come accennato, tale accordo non si pone su una linea di marcata discontinuità con le profonde riforme che hanno investito l’Unione europea a partire dallo scoppio della crisi. Una volta risolto il nodo britannico, insomma, resta ancora da risolvere il nodo principale: riconciliare l’accresciuta interdipendenza tra i paesi europei con un adeguato ruolo delle istituzioni comunitarie, per evitare il definitivo slittamento del governo del continente al di fuori del quadro giuridico e istituzionale dell’Unione.

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